A due settimane dall’evento, siamo ancora in fibrillazione per l’energia generata quel sabato 31 agosto.
Tutto parte dall’impegno di Marta Carminati, che si attiva per creare uno spazio sicuro in una falesia della bergamasca. L’idea è quella di riunire più arrampicatrici possibili per condividere una giornata di scalata e rivendicazione.
E wow! Da dove iniziare?
Partecipando all’evento ci siamo accorte di quanto ci sia bisogno di giornate di questo tipo, dove spontaneità e semplicità sono le parole chiave. È stata una giornata dedicata a noi Donne, ricamata sulle forme dei nostri corpi e frutto delle nostre necessità da sfamare.
Questa Climbing day è stata una giornata diversa da ogni altra giornata in falesia. Scalare è stato un veicolo per avvicinarci le une alle altre, per la grande maggioranza sconosciute, ma insieme focalizzate a rendere questi momenti nutrimento per la collettività.
Essere presenti ci ha fatto capire quanto sia fondamentale non l’essere tutte amiche, ma sorelle, capaci di coltivare una sorellanza solidale che vada oltre quelle che sono le nostre differenze, che possa unirci per comprenderci e accettarci.
Se queste parole possono risultare ridondanti, o delle “classike fras1 da f3mmistah con le ascelle p3lose!” è proprio perché abbiamo bisogno di più coesione, di più femminismo e di questa sorellanza solidale che batta il suo martello più forte e che purtroppo spesso manca proprio tra le donne. Purtroppo tutte – senza eccezione alcuna – siamo state educate ad odiarci l’una con l’altra, ad odiare i nostri corpi, a coltivare il seme dell’insoddisfazione personale, a paragonarci ed essere in competizione fra di noi.
Durante il momento di discussione è emerso quanto ognuna si senta appesantita dal carico di aspettative e pretese. Tutte ci sentiamo di dovere rientrare in specifici parametri imposti da una sovrastruttura complessa, ad esempio quello del riconoscerci come esseri femminili che vivono nella sfera del femminile e generano femminilità.
Ma cosa succede se abbandoniamo tali canoni?
Cosa accade se non ci riconosciamo in quelle forme da altri designate per noi?
Porsi domande che mettono in discussione il nostro ruolo nella società, diventa quindi un esercizio giornaliero per mantenere la nostra libertà di scelta attiva e la nostra consapevolezza elastica. Nel momento in cui decidiamo di scalare a petto nudo, non ci stiamo semplicemente spogliando dei nostri indumenti, ma stiamo spogliando il nostro corpo della sua sessualizzazione, dei suoi tabù e censure. Stiamo compiendo un esercizio per dimostrare a noi e agli altri che il corpo è di chi lo vive, ed è sempre di chi lo vive la completa arbitrarietà nel suo utilizzo.
A tal proposito, Margaret Atwood, nel suo celebre “Il racconto dell’ancella”, ci regala un motto di una potenza profonda: Nolite te bastardes carborundorum – ovvero “Non lasciare che i bastardi ti schiaccino”, un agguerrito invito a non rassegnarci al ruolo che ci viene imposto, ad applicare ancora una volta il nostro esercizio giornaliero del dubbio, al fine di disobbedire, uscire dai bordi che sono stati tracciati intorno noi, per vedere “cosa accade se”.
Si capisce quanto sia fondamentale domandarsi “cosa accade se” quando ci si trova insieme ad altre donne diverse ma uguali a noi, che condividono le stesse incertezze, ma anche gli stessi desideri. Insieme si prova a scalare il muro dei limiti per scoprire cosa c’è oltre, per capire che in realtà quel muro, non è poi davvero così invalicabile – se cerchi bene, qualche zappa la trovi in mezzo a tutte quelle svase 😉
Chiudiamo con una citazione di Giulia Zollino, portata in discussione durante la giornata e che abbiamo apprezzato tanto:
“Se la puttana è colei che rompe le regole, che osa, che non si accontenta, che occupa lo spazio, che alza la voce, che è libera di desiderare e di mostrarsi, fatemi un favore, la prossima volta che vi daranno della puttana, voi fermatevi, alzate la testa, e rispondete: sì, puttana e fiera.”
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